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17 febbraio 2023

17 febbraio 2023

Cento anni fa, a Carpignano Sesia, da Piero e Natalia Geranzani nasceva, in una stanza in penombra dalle pareti e dal soffitto affrescati, Giuseppe Ajmone, mio padre.

“Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem” (comincia, piccino, a conoscere la madre dal suo sorriso) dice Virgilio. Forse accanto al volto della amatissima madre, persa assai presto, già un’altra presenza gli sorrideva e di quelle immagini dipinte fin da subito si è nutrito.

Per tutta la vita ha amato la pittura, ha dipinto e la sua maestria pittorica è nota dalla produzione. Ma la l’indole, l’etica e la passione possono rivelarsi anche a chi non lo ha conosciuto personalmente attraverso le sue stesse parole che ho scelto per voi, per ricordare.

Il testo è l’introduzione al Catalogo: Ajmone-opera grafica. Severgnini-Piersantini Editori 1984.

 

 

Forse perché nelle osterie del piccolo paese dove sono nato e nel quale ho trascorso la fanciullezza si discuteva con più passione e più polemicamente sulle capacità degli artigiani locali che non sulle diagnosi del medico o dei progetti del geometra, che venivano ricordati solo se responsabili di infauste prestazioni, la voglia di adoperare le mani tentando le più avventurose sperimentazioni artigiane mi affascina ancora. Ricordo che da bambino passavo parecchio tempo con il naso sul banco di un falegname che aveva bottega quasi sotto casa mia e in assoluta ammirazione ero solito seguire i suoi movimenti. Guardavo le crudeli sgorbie per gli intagli e le affilate pialle che nella sua mano diventavano protesi dolci e carezzevoli capaci di trasformare il legno in seta con profumo di noce, di rovere e di castagno. Tutto ciò ricordo assai bene e molto mi è rimasta impressa la pazienza con la quale il ciabattino massaggiava i resti di un cadavere con tanta amorosa crudeltà usando il martello come il palmo della propria mano o come un piccolo maglio per creare il cuoio duttile e profumato destinato a proteggere il piede dell’uomo che cammina. Dopo molti anni ebbi la medesima emozione quando entrai in un laboratorio litografico. Se non vado errato, da Ricordi, un celebre nome con una grande tradizione che si perpetuava in quegli ambienti meravigliosi. Il pavimento a cassero, le grandi finestre e i torchi a stella che, con quei loro timoni consunti e lisci, marcavano una presenza di macchine leonardesche.

Mi venne incontro un uomo secco con due occhi vivaci e penetranti; i capelli appena brizzolati e   ondulati naturalmente come se ci avesse appena passate dentro le mani. La inflessione denunciava la sua origine milanese e le braccia e le mani lo accreditavano di un lavoro ripetuto quotidianamente. Si capiva che quelle mani, nervose e pronte, erano educate a fermare un rullo ai bordi della tavolozza con quel classico mezzo giro di ritorno, diciamo, per un attimo “in folle” proprio dello stampatore quando macina l’inchiostro per poterlo stendere sulla lastra. Lo stampatore si chiamava Borgonovo e, con tutti gli artigiani, mi disse, non senza orgoglio, che aveva collaborato alla creazione di litografie d’arte e fece il nome di Berman. Mi presentava la sua carta di credito, non voleva essere confuso con gli stampatori degli anonimi vascelli inglesi, farfalle, uccelli e animali esotici. Bene, fu lui che con la sua voglia di non ripetersi mi spinse, senza alcuna violenza, se violenza non è parlare con tanto entusiasmo di un mestiere, a fare della litografia. Avevo già studiato ed eseguito molte calcografie, ma la scoperta di questa stampa piana, calda, che può rifare gli effetti della matita, della penna, del carbone, delle grandi stesure piatte mi pareva molto più adatta a trascrivere con una notevole ampiezza le mie emozioni. Inconsciamente, alla ricerca del mio tempo perduto, riandavo con la memoria alle stampe che popolavano le pareti della casa medio borghese nella quale ero cresciuto e tutte quelle litografie, dalle più nobili alle più popolari, mi si ripresentavano con la loro volgarità e la loro finezza di soggetto o di tecnica in modo così vivo da riproporsi come modelli per la mia nuova attività. Forse per questo le opere destinate ad essere ripetute, a diventare dei multipli, devono contenere queste due anime: la semplicità del prodotto popolare e la raffinatezza di una tecnica che testimoni della qualità del lavoro dell’artigiano e dell’artista che le hanno eseguite. Del resto basta scorrere l’elenco dei grandi litografi per avere in proposito una risposta affermativa. Lavorare con un buon artigiano al proprio fianco è per un artista, a mio modo di vedere, incentivante. Come in tutte le relazioni umane si tratta di un confronto che sul lavoro non diventa astrattamente sentimentale ma anche di conflitto e di discussione. Si passano ore a provare e a discutere circa le possibilità chimiche o meccaniche per concretizzare nel modo più semplice, perché ogni tecnica ha le sue regole, un’idea di poesia che non dipende solo da noi stessi ma da una quantità di impedimenti che per un vero creatore possono essere molto eccitanti. Per concludere sentimentalmente o appassionatamente queste poche righe: quando entro in un laboratorio litografico mi sento bene, perché amo l’odore della carta stampata e il dialogo con chi lavora muovendo le mani, perché ritengo un grande privilegio essere capaci di trasformare la materia. Non sono mai riuscito a mettere piede in un laboratorio triste forse perché tutti i veri artigiani amano il loro mestiere, sono allegri e in pace con il mondo, appagati da quello che fanno.

Giuseppe Ajmone

 

 

Oggi più che mai della sua lezione sulla passione e il rispetto per il proprio mestiere e per il lavoro in generale, io credo, si sente il bisogno.

 

Con affetto,

Natalia

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